Avete mai pensato con una certa attenzione, fratelli miei, alla memoria e che cosa comporti per l’individuo la possibilità di ricordare? Senza dubbio le cose che posso dirvi in proposito sono ovvie e possono apparire a prima vista banali, ma proprio l’ovvietà e l’apparente banalità delle cose vi induce spesso a non soffermarvi e a ragionare su di esse.
Date tutto per scontato, senza magari accorgervi di cose che possono avere la loro importanza se comprese un po’ più profondamente ma che, invece, restano incomprese perché sottovalutate.
Vediamo di osservare alcune implicazioni per la presenza o l’assenza della memoria facendo riferimento, com’è mio compito, all’insegnamento.
Per prima cosa è necessario sottolineare che, senza la possibilità di ricordare, andrebbe persa qualsiasi possibilità di poter evolvere. Infatti l’evoluzione procede per successive acquisizioni ed ampliamento di ciò che si è precedentemente acquisito e, se non si conservasse la traccia di quanto compreso in precedenza ad ogni incarnazione si dovrebbe ricominciare tutto da capo.
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Questo concetto, tra l’altro, dà già la possibilità di comprendere che la funzione della memoria, pur essendo tipica per l’uomo incarnato del suo corpo mentale, è una funzione che deve in qualche modo anche essere collegata al corpo akasico, poiché è in esso che vengono fissate le comprensioni acquisite.
Ed è logico che debba essere così, dal momento che il corpo mentale, così come il fisico e l’astrale, sono corpi transitori il che sta a significare che alla fine dell’incarnazione vanno persi e, quindi, se la memoria fosse un’esclusiva di uno di questi corpi, essa andrebbe certamente persa con l’abbandono del corpo in questione.
Ma, vi chiederete allora, dov’è veramente situata la memoria? Che reale relazione c’è con quelle aree che i neuro fisiologici indicano esistere all’interno del cervello umano e che insegnano essere le aree del ricordo e, perciò, della memoria?
Vedete, fratelli mie, come appare evidente da quanto ho detto poc’anzi la memoria non può essere appannaggio di un solo corpo dell’individuo, ma è una funzione che si riscontra in tutti i corpi dell’individuo.
È ovvio che esiste una memoria che opera già a livello fisico: se così non fosse la catena genetica non avrebbe la possibilità di riformare le cellule distrutte perché non vi sarebbe il «ricordo» delle informazioni adatte.
È altrettanto ovvio che esista una memoria a livello di corpo astrale: se un’emozione di paura non restasse immagazzinata con la sua intensità emotiva questa intensità emotiva si presenterebbe sempre come una bomba sconosciuta ogni volta che la situazione emotivamente «forte» si ripresenta.
Accade invece che l’emozione «forte» diventa sempre meno forte ogni volta che la situazione si ripete e, più volte si ripete, più debole diventa l’emozione. Questa perdita di intensità dell’emozione sotto l’influenza di uno stimolo ripetuto avviene perché l’emozione è già conosciuta, ricordata e quindi, sempre di più a ogni ripetizione dell’esperienza, sfrondata di intensità per focalizzarsi su altri aspetti emotivi dell’esperienza.
Per quanto riguarda il corpo mentale non vi sono dubbi che esista una memoria: basta pensare al fatto che se non esistesse la memoria di ciò che si fa, si dice o si pensa non sarebbe possibile condurre un ragionamento ed estrarre da esso deduzioni, ipotesi o anche solo semplici considerazioni.
Ma allora, dov’è situata la sorgente della memoria? Certamente non nel cervello, come potrebbe pensare qualcuno di voi. Il cervello conserva in una sorta di «memoria» temporanea gli accadimenti della quotidianità, in una sorta di memoria «tampone» che distribuisce le risultanze dell’esperienza vissuta ai corpi cui compete quel settore di esperienza: la parte emozionale al corpo astrale, la parte razionale al corpo mentale, affinché essi provvedano in qualche maniera a sottoporle a un primo ordine vibratorio da inviare poi, come dato utile per la comprensione dell’esperienza, al corpo akasico.
Tuttavia questa memoria «tampone» posseduta dal cervello è evidente che viene annullata al momento della morte dell’individuo, anche solo per il fatto che l’organo cerebrale perde la sua funzionalità.
Risulta chiaramente che la memoria «permanente» non può che essere situata nel corpo che non è transitorio, ovvero nel corpo akasico.
Tutto ciò che viene vissuto, le emozioni, i ragionamenti, i fatti e tutto il complesso corredo che li accompagna si trascrive all’interno del corpo akasico dell’individuo, fissandosi definitivamente in esso allorché viene raggiunta una comprensione.
È a questo bagaglio di riferimenti che il corpo akasico fa riferimento per indurre i corpi inferiori a ricercare certe esperienze e non altre.
In parole povere il corpo akasico deve necessariamente possedere una memoria per poter correlare tra loro le esperienze e trarne quei collegamenti che lo inducono a muovere i corpi inferiori nel corso dell’incarnazione alla ricerca delle situazioni più adatte per appagare il suo desiderio di comprendere senza ombra di dubbio ciò che «sente di non aver compreso».
Volendo, si potrebbe arrivare persino a sostenere che il sentire è memoria, anche se una tale osservazione non sarebbe precisa: il sentire appartiene ai sottopiani più sottili del corpo akasico dell’individuo, mentre la memoria di ciò che ha vissuto nel corso delle varie vite è immagazzinato nei sottopiani più densi.
Certamente, comunque, le due situazioni (memoria e sentire) sono in collegamento tra di loro e interagiscono continuamente: per inviare le sue richieste di esperienza ai fini della comprensione il sentire deve necessariamente fare riferimento a quello che nella memoria del corpo akasico risulta che sia già stato sperimentato, in maniera tale da ampliare una certa esperienza o esplorare parti o sfumature di essa che non risultano ancora essere state esplorate nella maniera adeguata.
Per concludere questo discorso (per forza di cose approssimativo e certamente non esauriente in tutte le sue particolarità), volevo accennare a due elementi importanti che sono strettamente collegati alla memoria: il senso del tempo e la sensazione di esistere.
Il senso del tempo scaturisce dall’osservazione in successione degli avvenimenti compiuta dai corpi inferiori nel corso della vita. Ovvero: il corpo fisico stabilisce il tempo in base alla successione delle sensazioni che egli percepisce, in base alla sequenzialità delle emozioni che lo coinvolgono, in base ai ragionamenti che esse provocano nel corpo mentale. Senza la memoria e il ricordo questa successione non sarebbe percepibile: tutto apparirebbe contemporaneo.
Il tempo (sensazione, estremamente soggettiva, al di là delle convenzioni attuate dall’essere umano allorché è incarnato con la fittizia divisione in unità di tempo quali l’ora, i minuti o i secondi) esiste nella soggettività proprio grazie alla percezione soggettiva dell’Io che tiene se stesso come punto fermo della sua realtà cui tutto fa riferimento.
Se esiste, ovviamente, deve avere una sua funzione, vero fratelli? Certamente ne ha più di una e quella che mi preme sottolinearvi in questo ambito è quella di dare un ordine di invio al corpo akasico dei dati dell’esperienza in forma via via più ampia, partendo dal semplice dato per arrivare all’articolazione più complessa che comprende ancora il dato semplice ma lo completa con dati aggiuntivi che possono fornire all’akasico una visione più completa dell’esperienza.
La successione delle comprensioni segue la successione delle esperienze fatte nella realtà soggettiva ed è ancora funzionante e percepita come successiva dal corpo akasico nel trarre comprensione: non può accadere, ad esempio che un individuo capisca una sfumatura di comprensione prima di aver capito la base della comprensione stessa.
Questo è valido per il corpo akasico fino a quando non si arriva alla parte di esso in cui viene scritto (o sarebbe meglio dire «riscritto» il sentire.
In questa zona dell’akasico non vi è più successione ma tutto è contemporaneo in una maniera tale che a me, in questa sede, è impossibile spiegarvi, anche perché lo so per averlo sentito dire dai Maestri e non per esperienza diretta.
La memoria e il senso del tempo portano alla sensazione di essere un’entità che attraversa la realtà in un lungo peregrinare attraverso la vita, alla sensazione di essere «io» che mi riconosco nel tempo e che attraverso il tempo secondo un filo conduttore a cui sono sempre collegato e nel quale mi identifico.
Questo dà all’Io e alla consapevolezza individuale dell’uomo incarnato la sensazione di esistere. Ma è una sensazione fallace e transitoria perché basta uno squilibrio che provochi una forte perturbazione a livello fisico, astrale o mentale, per attraversare momenti in cui non si riconosce più se stessi e si ha la sensazione di non essere più la stessa persona.
La sensazione di esistere, l’illusione di esistere pur nell’apparente realtà e concretezza del mondo fisico, diventa alla fine coscienza di esistere allorché essa si confronta con il complesso dell’individualità all’interno del corpo akasico, laddove il contatto con la coscienza superiore dell’Assoluto rende inamovibile la certezza che ognuno di noi, malgrado la propria effimera esistenza, «è» ben al di là di quella che può essere l’esistenza come Tizio, Caio o Sempronio.
E in questa coscienza di esistere si annulla il tempo, perde importanza il ricordo e acquista preminenza il concetto che prima di tutto si «è», in maniera totale e definitiva.
Nel corso di una delle mie vite mi sono interessato di magia e di esoterismo e, nel percorrere la mia strada lungo la ricerca della conoscenza mi sono imbattuto in un’antica pergamena della quale non si sapeva la provenienza. Essa diceva, in una scrittura rapportabile a quella usata dai sacerdoti egizi:
Padre mio,
ho cavalcato mille cavalli imbizzarriti e da essi ho trovato in me le parole e i suoni che li rendevano docili e capaci di seguire i miei desideri, conducendomi lungo le strade paurose della mia interiorità.
Ho incontrato sul mio cammino orde di lupi ringhianti dai denti snudati come barriere poste sulla mia strada per fermare il mio avanzare verso di Te ma ho saputo tranquillizzarli con la luce della mia serenità, con la forza di un mio sorriso.
Mi sono imbattuto in tempeste che facevano rivoltare i mari portando in alto quello che era in basso e ricacciando negli abissi più profondi quello che era in superficie, rimanendo a galla sopra il pelo delle acque turbolente solo grazie alla mia convinzione che io, qualunque cosa potesse accadere, non sarei mai morto veramente.
Ho sfidato il fuoco più ardente, il lampo più abbagliante, la grandine più tambureggiante riparandomi sotto la volontà di giungere indenne nel porto della mia anima.
Ho attraversato momenti in cui il mio corpo mi è sembrato un peso inutile e ingombrante di cui avrei voluto poter fare a meno.
Ho percorso ore interminabili in cui paure, rancori, terrori cercavano di ridurmi come un fuscello in balia del vento pronto a spezzarmi frammento dopo frammento.
Ho vissuto periodi in cui i miei pensieri sembravano essere pensati soltanto allo scopo di ferire me stesso o, peggio ancora, di ferire gli altri.
Eppure, sempre, qualcosa dentro di me è riuscito a modificare ciò che attraversavo aggrappandosi al piacere di un vento primaverile o alla risata senza imbarazzo di un bambino o all’incontro con una nuova, inaspettata, meravigliosa idea.
E infine, padre mio, ti ho scorto e tutto ciò che ho vissuto mi è apparso nella sua grandezza, facendomi riconoscere che di tutto ciò avevo bisogno per arrivare a essere una parte cosciente di Te. Andrea
Veramente interessante
veramente grato di aver letto
Grazie.