Insegnamento filosofico 30
Si può affermare che in qualsiasi teoria psicologica, presentata nel corso dell’evoluzione di questa scienza umanistica, è possibile riscontrare punti reali e punti meno reali. Ad esempio sia nelle teorie portate avanti da Freud, sia nelle teorie di Jung, sia nelle teorie di Adler, è possibile riscontrare dei punti che, secondo il nostro parere, sono perfettamente aderenti all’insegnamento che noi da più anni andiamo portando, e che sono, secondo noi, dei punti di partenza ineccepibili. Pur sembrando in molti punti contrastanti tra di loro, in realtà, invece, tutte e tre le teorie non sono in alternativa l’una all’altra, ma sono tra di loro complementari.
Prendiamo ad esempio la teoria freudiana, naturalmente parlerò in termini molto semplici sia perché non è possibile, per il momento, addentrarsi nella materia, sia perché vi sono persone che, altrimenti, non potrebbero riuscire a seguire.
Voi sapete che il punto di base (che poi è stato anche il punto più criticato di tutta la teoria freudiana) è l’esistenza della sessualità alla base dei traumi dell’individuo.
Questo punto, come dicevo, è stato contestato in passato, all’epoca ed anche attualmente da più fonti; in realtà, anche seguendo l’insegnamento esoterico questo punto può essere considerato valido: infatti se voi andaste a scorrere le varie fonti di insegnamento esoterico vedreste che, per quanto riguarda la sessualità, essa è ritenuta sempre una delle fonti energetiche maggiori, tanto è vero che la famosa kundalini è una forza che viene fatta salire dagli organi sessuali.
Il nostro Sigmund Freud, dunque, ha riscoperto in qualche modo l’esistenza di questa energia sessuale, ed ha ritenuto, giustamente anche se forse in modo limitativo, che essa fosse alla base dei traumi dell’individuo.
Certo, in molti casi, questa è diventata un’ossessione, è diventata una esagerazione, è diventata un portare all’eccesso la teoria di base, pur tuttavia, ripeto, almeno la teoria di base era nel giusto.
Uno dei punti più conosciuti, invece, della teoria adleriana, è quello che riguarda la volontà di potenza: l’individuo cioè agisce all’interno del mondo nel tentativo di affermare se stesso nei confronti degli altri e, quando è possibile, di impossessarsi di ciò che lo circonda, sia persone, sia sentimenti, e via e via e via.
Bene anche questo, creature, mi sembra che vada di pari passo con l’insegnamento che anche noi siamo andati portando, perché non è forse traducibile negli stessi termini ciò che noi veniamo a dirvi, secondo cui voi tendete a separare voi stessi dalla realtà che vi circonda, che voi tendete col vostro Io a prevaricare, che voi tendete con il vostro Io ad affermarvi sugli altri, che voi tendete quindi ad essere più potenti degli altri, in modo da emergere?
Per quanto riguarda poi il nostro amico Jung (e mi permetto di chiamarlo così poiché dei tre è quello che senza dubbio più ci è stato vicino nelle sue ricerche); chi ha letto qualcosa di lui sa che si è interessato molto spesso di occultismo, di esoterismo e anche di spiritismo.
Spulciando la sua teoria si possono trovare le affermazioni riguardanti l’inconscio collettivo, inconscio collettivo che poi, in seguito, è stato preso, trasformato, modificato, usato per giustificare un po’ tutto quello che è giustificabile, ma forse questa è un altra storia che è meglio narrare un’altra volta.
Bene, anche questo punto della teoria junghiana è giustissimo, infatti l’inconscio collettivo, pur mettendolo tra virgolette – per restare nel tema della serata – esiste eccome; l’inconscio collettivo, infatti secondo noi, è assimilabile perfettamente a quello che viene chiamato il corpo akasico dell’individuo, ovvero il corpo in cui vengono trascritte tutte le esperienze.
Nel piano akasico infatti vi è la presenza di tutti i corpi di tutti gli individui, i quali allorché raggiungono una certa consapevolezza si fondono e comunicano tra di loro formando una fratellanza; questa fratellanza mette assieme tutte le esperienze vissute nel corso delle incarnazioni e la somma di tutte queste esperienze, che si riflettono ogni volta che l’entità si ripresenta sul piano fisico, formano quello che può essere definito l’inconscio collettivo, quindi un insieme di esperienze da cui l’individuo inconsapevole attinge, non soltanto sue ma anche appartenenti ad altri individui. Scifo
Dalla lettura delle nostre parole si può intendere che noi rivolgiamo delle critiche alle scienze psicologiche (se così le vogliamo chiamare); orbene, questo, sotto certi punti di vista può essere anche vero anche se non è proprio così perché riconosciamo una certa importanza alla psicologia.
La “psicologia” infatti, come tutte le scienze tende a sperimentare quello che è sperimentabile (e in questo non vi è nulla da ridire), tuttavia se per le altre scienze può essere giusto il poter generalizzare un risultato (frutto di diversi esperimenti) questo per le scienze psicologiche, invece, è un grosso errore.
Quindi, se proprio volete vedere la nostra critica nei confronti delle scienze psicologiche, direi che è proprio su questo punto basilare che essa va fatta: perché quello che noi riteniamo essere l’errore di base della psicologia è proprio il fatto di generalizzare quello che per nessuna ragione può essere generalizzato.
Se io, infatti, osservo il comportamento di una determinata persona per periodi di tempo più o meno lunghi posso naturalmente farmi un’opinione di quella persona, del suo comportamento, delle sue reazioni e delle sue possibili ed eventuali motivazioni, però badate bene che quelle conclusioni a cui io posso giungere riguardano solo ed esclusivamente quella persona e non possono essere per nessuna ragione valide per un’altra persona, anche se posta nelle stesse condizioni ambientali, sottoposta a identici stimoli e via e via.
E ricordate ancora una cosa: se fino ad oggi noi abbiamo insistito e ancora insisteremo senz’altro sul concetto della soggettività della realtà, immaginate quanto poco sia possibile da parte mia, in qualità di osservatore, poter cercare di comprendere e di capire il comportamento di un altro individuo; tutt’al più quello che io posso comprendere è qualcosa di me stesso, qualcosa che tocca la mia interiorità.
Se, infatti, io osservo una persona nei suoi comportamenti e noto qualcosa di particolare è perché quel qualcosa di particolare giace in me, fa parte di me, e quindi in qualche modo mi coinvolge, mi tocca, mi stimola, mi fa pensare e mi fa meditare.
1- Quindi se l’errore di base è quello di non poter generalizzare i comportamenti umani,
2- un altro errore non meno importante, e quindi un’altra critica, è quello di dare credito al fatto di riuscire a comprendere il comportamento altrui.
3- Un altro errore, un’eventuale altra critica che possiamo notare, è il fatto che le varie teorie sorte grazie a diversi studiosi nel corso dei secoli, ben difficilmente venivano adeguate all’evolversi dei tempi: infatti queste teorie potevano essere più che valide per il periodo storico e culturale in cui esse erano uscite, studiate, verificate, ma potevano aver necessità di sostanziali revisioni con il mutare delle condizioni interiori ed esteriori.
Così, ad esempio, se il nostro carissimo signor Freud ha fatto risalire ogni comportamento “anormale” alla sessualità, a traumi sessuali, questo naturalmente, anzi certamente, era valido nel periodo storico in cui egli ha vissuto, nel periodo storico in cui cioè parlare solo di sessualità, di sesso e cose del genere era totalmente una follia, in un periodo storico dove i tabù sessuali, la repressione sessuale non erano certo allo stesso livello di oggi.
Lo stesso esempio può essere fatto per l’altro nostro carissimo amico Adler, che parlava di “volontà di potenza”, volontà di potenza che noi abbiamo accostato al discorso dell’espansione dell’Io che da più anni portiamo avanti. Orbene, anche questo discorso è chiaramente limitato al periodo storico in cui Adler ha vissuto, anche se in modo meno evidente rispetto alle teorie freudiane, perché, voi sapete bene, che via via che l’individuo evolve l’espansione dell’Io si attenua, l’individuo stesso tende a diventare altruista, tende a sentire gli altri suoi fratelli, come veri e propri “fratelli”, e cose del genere, quindi questo significa che anche questa teoria è limitata a un periodo storico in cui l’Io degli individui stava crescendo.
Quindi le scienze psicologiche, a nostro avviso, dovrebbero sempre adattarsi, adeguarsi all’evoluzione degli individui che sono incarnati, e quindi rivedere le teorie adattandole al nuovo stato interiore dell’individuo.
Non parliamo poi dell’ostico discorso dell’“inconscio”, poiché darne una definizione soddisfacente non è cosa facile, anche perché se voi considerate che nell’inconscio sono racchiuse tutte le esperienze delle varie vite che l’individuo ha compiuto, potete da soli immaginare quanto sia impossibile definirlo. Vito
Tempo fa si era detto che lo scopo principale che cercano di ottenere le discipline psicologiche non è altro che quello di far sì che l’Io si adatti a quella che è la società permettendo che esso si senta tranquillo e appagato all’interno del contesto societario in cui si trova immerso.
Questo, com’è evidente, contrasta con quello che noi vi andiamo insegnando, ovvero il superamento dell’Io.
D’altra parte gli psicologi incontrano sempre questo tipo di difficoltà:
1- o far sì di inserire l’Io nella società e quindi di integrare e rafforzare l’Io stesso,
2- oppure perdere il cliente perché non ottiene (secondo i desideri del suo Io) gli scopi per cui si reca dal terapeuta.
È anche per questo che una volta qualcuno di noi ha affermato che bisognerebbe che lo psicoanalista, o lo psicologo in generale, potesse essere una persona che fa questo lavoro per piacere e non per conseguire un vantaggio economico: infatti se lo psicologo deve vivere grazie a questo lavoro è chiaro che non si può pretendere che egli faccia scappare i clienti mettendoli di fronte alla loro sofferenza (cosa difficile da accettare) ma tenderà invece più facilmente a scegliere la più facile, la via della ricostruzione dell’Io del paziente.
Reintegrazione dell’Io
È inevitabile, quindi, che chiunque intenda fare di questo tipo di opera la propria fonte di sussistenza arriverà, gioco forza, a dei compromessi. L’importante è però che lo psicologo si renda conto di questi limiti delle varie tecniche da applicare e le consideri solo un punto di passaggio transitorio e ancora molto migliorabile.
D’altra parte bisogna considerare una cosa: la persona che va dallo psicologo per problemi di inserimento nella società, tutto sommato, quello che va cercando non è tanto il superare l’Io quanto il sentirsi tranquillo, anche se voi che seguite l’insegnamento sapete che tra sentirsi tranquilli ed esserlo veramente c’è una grossa differenza e che sentirsi tranquilli, il più delle volte, non significa altro che nascondere il problema e rimandarlo ad altre occasioni future in cui si ripresenterà, magari, anche con maggiore intensità e sofferenza.
Però, se è questo che la persona cerca, lo psicologo è giusto che cerchi di farle ottenere almeno questo, con la speranza però che questa tranquillità (anche se fittizia) procuri un momento di sosta della sofferenza, momento sul quale l’individuo sofferente possa meditare prendendo visione con meno assillo dei suoi problemi e, quindi, lavorare proficuamente sul proprio intimo.
Usare la sofferenza
Accanto a questo modo di operare (ovvero far ottenere al paziente la tranquillità reintegrandogli l’Io e permettendogli di avere quella momentanea tranquillità senza la quale difficilmente riuscirebbe a contemplare le proprie pulsioni obiettivamente) ve n’è un altro, quello che prende come “maestra” l’esistenza stessa, ovvero usare la sofferenza: far, cioè, vivere all’individuo in queste condizioni (con l’Io già frastornato) la sofferenza fino in fondo, in quanto la spinta della sofferenza – come voi sapete – è ottima per indurre anche il più pigro e poco volenteroso degli uomini a darsi da fare per non soffrire più!
Tuttavia questa linea d’azione comporta dei problemi non indifferenti perché per saper usare nel modo giusto la sofferenza bisogna veramente essere in gamba, non tanto come conoscenze quanto come evoluzione e sensibilità, ed è una cosa che non tutti possono fare con esito positivo o – per lo meno – non negativo.
Gli stessi Maestri, che pure potrebbero con una certa facilità usare questa tecnica, vi ricorrono soltanto in casi particolari, per i quali – magari – nient’altro servirebbe. Questo perché è sempre preferibile, se solo è possibile, che l’individuo arrivi alla comprensione senza correre il rischio di essere travolto e coinvolto eccessivamente da momenti dolorosi.
Naturalmente questo non è da essere confuso col sadismo di chi fa soffrire provando piacere della sofferenza altrui: la sofferenza va impartita sorreggendola con l’affetto, con fermezza ma con amore, con spietatezza ma senza astio e via dicendo. E, come dicevo prima, questo non è facile da attuare dall’uomo comune che non si conosce a fondo e che tende, solitamente, a prendere per buone le sue intenzioni perché così appaiono superficialmente mentre magari, sotto la patina di altruismo, sono crudeli e fortemente egoistiche, cosa questa che la persona sofferente – e, come tale, particolarmente ricettiva alle sfumature – di solito avverte in maniera inconscia, ricavandone un ulteriore stimolo a rifuggire da se stesso e dagli altri.
Oltre la centralità dell’Io
Certo, vi sono correnti psicologiche moderne che, apparentemente, cercano in teoria di evitare gli errori di cui parlavo all’inizio, ma la base non cambia perché non cambia il tipo di persona e il problema di fondo della persona che va dallo psicologo: cioè il fatto che costui si trova male con gli altri e con se stesso (il che, in fondo, è la stessa cosa). Ma trovarsi in questa situazione significa non sentirsi aiutato, accettato, non poter godere di ciò che altri hanno e così via, ovvero non trovarsi bene all’interno della società. Quindi, qualunque sia la teoria da cui ci si muove, è sempre uno spingere ad adattare l’Io del paziente alla società in cui vive, finendo col rafforzarlo.
Secondo l’insegnamento che noi vi portiamo, invece, sarebbe più giusto (riuscendo, naturalmente, a farlo) non integrare la persona nella società ma aiutarla a sciogliere il suo Io in modo tale che si possa trovare bene anche essendo (teoricamente e realmente) al di là, al di fuori della società stessa. Ma di tutto questo parleremo ancora più avanti negli anni.
Ricordate che mettere da parte la sofferenza, cercare di dimenticarla, di evitarla, non ottiene altro scopo che di accantonare senza risolvere il motivo interno della sofferenza: meglio, molto meglio è, invece, se si vuole non soffrire più, affrontare una volta per tutte con sincerità e spietatezza nei propri confronti i motivi interiori per cui determinate azioni, parole o pensieri inducono a soffrire. Questo, ripeto, è un insegnamento importantissimo ed utilissimo per conseguire quella vera serenità a cui ogni essere tende.
È chiaro che non basta fare questo per annullare il problema: il problema esisterà ancora (specie se derivante da motivi esterni oggettivi), pur tuttavia se verrà eliminata la connotazione negativa interiore, si acquisterà la capacità di ragionare più lucidamente e, molto spesso, di trovare la via per rimuovere o rendere pressoché inefficace anche questa eventuale causa esterna. Boris
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Molto interessante questo post, lucida analisi dei limiti (per la verità molti) e vantaggi della psicologia e psicoanalisi. Interessante è il concetto che “lo scopo principale che cercano di ottenere le discipline psicologiche non è altro che quello di far sì che l’Io si adatti a quella che è la società che esso si senta tranquillo e appagato all’interno del contesto societario in cui si trova immerso” e ancora quando si parla dell’inutilità di tentare di nascondere e e fuggire dalla sofferenza.
Uno di questi giorni ho rapidamente scorso le patologie riportate nell’ultimo DSM (manuale ufficiale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), vi assicuro che c’è una patologia per ciascuno, come dire nessuno è sano! C’è un’ampia scelta di circa 300 disturbi!!! Sembra vietato essere diversi e non integrati. Altra considerazione riguarda il dolore, la fuga dal dolore e sofferenza parte già da quello fisico (premesso che ci sono dolori di cui è eticamente doveroso occuparsi esempio quelli oncologici o cronici), mi sembra che ci sia una cultura che porta ad un rifiuto totale del dolore e del disagio, sono infermiera e questo lo vedo tutti i giorni, basta un po’ di febbre e qualche dolore alle articolazioni per buttarsi su aspirina e tachipirina, quando: 1. Un po’di febbre è un meccanismo benefico che usa il corpo per difendersi (non andrebbe abbassata se non in casi particolari). 2. Qualche doloretto può essere un’occasione per meditarci sopra in santa pace e tranquillità a letto!
In realtà c’è, ma questa è solo una mia opinione, una spinta troppo generalizzata e troppo forte all’anestesia e sedazione su tutti i corpi, la parola d’ordine sembra essere “non sentire in profondità”.
Rileggendomi non so se sono stata chiara, ma sono temi che sento significativi.
Sandra: sei stata molto chiara.
Grazie, post chiarificatore sull’argomento.
Certo che c’è una bella differenza fra un accompagnamento psicologico che ti sostiene l’ Io e quello di un serio maestro della via interiore che ti sega il ramo sul quale sei seduto…
Molto interessante il post. Personalmente ho iniziato il percorso di conoscenza di me, attraverso un approccio psicologico, cercando in quel contesto possibili risposte alla mia sofferenza. Posso dire che mi è stato utile, ma ne ho colto anche i limiti e gioco forza, quando la sofferenza è stata grande ho sperimentato altre vie, che a onor del vero sono state sempre complementari, ma intraprese ancora, con troppa superficialità. A un certo punto del percorso esistenziale, mi sono resa conto che l’unica via possibile è quella severa proposta dalle guide, quella che cerchiamo di comprendere e approfondire nella nostra comunità. Mi è molto chiaro anche l’ultimo passaggio del post, in cui si afferma che la sofferenza, se affrontata e non scansata, può diventare un mezzo fondamentale di comprensione e quindi superamento della sofferenza stessa. Alla base non può mancare la fiducia, componente indispensabile che ci permette di porci in una prospettiva attiva degli eventi e non vittimistica come la cultura predominante propone.
Post che chiarisce molte cose sull’argomento, grazie.
Lettura utile a mitigare la considerazione piuttosto negativa che ho per esperienza della psicologia: qualche merito adesso mi toccherà riconoscerglielo!
Finalmente qualcosa che ha senso in un mare di stupidaggini.