Da una finta democrazia alla coscienzocrazia [A203]

La situazione mondiale (2014, ndr) che sta vivendo la popolazione del pianeta è forse una delle più gravi che sia stata vissuta sul nostro splendido mondo nel corso dei millenni.

Non che in passato nella storia dell’umanità non si siano presentati periodi altrettanto gravi, tuttavia il raggio di azione delle crisi era limitato a porzioni più o meno grandi di umanità e la differenza con la crisi attuale consiste principalmente proprio in questa differenza: la cosiddetta “globalizzazione”, infatti, ha posto le condizioni per cui una crisi che avrebbe potuto essere limitata diventa, invece, una crisi globale che coinvolge tutte le società in tutte le loro sfumature, trascinando nella crisi la totale popolazione mondiale e mettendo in atto una sorta di “effetto domino” che coinvolge tutte le tessere del gioco evolutivo dell’umanità presente sul pianeta.

Analizzare tutte le componenti che entrano in campo è cosa molto ardua, in quanto complesse sono le interrelazioni tra i molteplici fattori di stretta interdipendenza a livello economico, politico, tecnologico, sociale e culturale (e, quindi, etico/morale) che il processo di globalizzazione ha messo in gioco e, in ognuno di essi, possono essere riscontrati sia aspetti positivi sia aspetti negativi, coerentemente con il concetto di ambivalenza di ogni cosa così caro alle Guide.

Vediamo di esaminare – anche se in maniera non approfondita perché il farlo comporterebbe su binari troppo complessi e distanti dal programma attuato in questo ambito – i fattori che abbiamo citato, osservandoli nella nostra ottica che, come certamente ormai sapete, parte da un assunto di base imprescindibile, ovvero che il cambiamento dell’umanità e, quindi, delle condizioni in cui l’individuo incarnato si trova a vivere, non è, in realtà, il prodotto di un qualche tipo di rivoluzione ideologica di massa, come generalmente si pensa, ma può avvenire solamente quando ogni singolo individuo cambia nel suo interno, trasmettendo le acquisizioni del suo sentire alla società di appartenenza (in questo caso una società intesa nel senso più esteso di società “globale”, visto che questo termine è diventato così di moda). 

È evidente che tutti i fattori che abbiamo citato non possono venire presi in considerazione singolarmente ma che essi sono interdipendenti tra di loro, cosicché la possibile analisi di un elemento non può non sfociare, alla fine, nell’esame delle conseguenze che l’azione esplicata da un singolo elemento induce in tutti gli altri, creando un quadro molto complesso e, apparentemente, caotico e di difficile comprensione e lettura nella sua globalità.

Cercheremo così, nei limiti delle nostre finalità e dei nostri compiti presso di voi, di fornirvi un quadro il più generale possibile sul quale porre la vostra attenzione alla ricerca dei perché della vostra vita quotidiana, sottoponendovi stimoli logici ed emotivi sui quali confrontare la vostra personale comprensione della realtà di cui fate parte.

Il modello economico che attualmente sembra ormai essere diventato quello predominante è il capitalismo, mentre l’altro modello economico in apparente  contrapposizione (quello socialista sfociato, gradatamente, nel comunismo derivante dal pensiero marxista) appare in declino e in difficoltà nell’opporsi all’ampliarsi della concezione capitalistica dell’economia globale.

C’è da osservare che, in realtà, la dicotomia capitalismo/comunismo non presenta dei modelli economici poi così diversi tra di loro se non nei presupposti; infatti, come cercheremo di farvi vedere, alla fine, nello sviluppo pratico all’interno dell’evoluzione le due diverse concezioni finiscono con lo sfumare e intersecarsi.

Il capitalismo si basa sui concetti di proprietà privata e di mercato libero, quindi tende a concepire lo sviluppo economico come un’operazione tendenzialmente individuale (e con questo termine non intendo solo l’attività economica derivante dall’iniziativa di un singolo individuo, ma anche quella messa in atto da gruppi di individui che si uniscono in società, come ad esempio le multinazionali, per ottenere vantaggi economici), mentre il modello economico alternativo propone di concepire lo sviluppo economico come azione diretta da parte di uno Stato, arrivando così, in questo modo, almeno teoricamente, ad eliminare la proprietà privata a beneficio dell’intera comunità, con uno Stato che accentra in la funzione di pianificare lo sviluppo dell’intera attività economica sulla base delle presunte necessità della popolazione. 

La differenza principale fra le due diverse teorie economiche consiste proprio nella diversa importanza che viene data all’iniziativa privata ma entrambe le teorie, sono, alla fin fine, accomunate dal fatto di voler gestire il potere che l’avere il dominio economico comporta non solo all’interno di una società singola e della sua popolazione, ma anche nella gestione dei rapporti di potere con le altre società e popolazioni.

Questa comunanza dei due modelli induce a pensare, giustamente, che essi siano due aspetti di uno stesso Archetipo Transitorio, oserei dire di influenza “globale”, aspetti che, evidentemente, l’umanità ha necessità di sperimentare direttamente per comprendere qualcosa che ha difficoltà di comprendere per arrivare a risultare conforme al modello principe e universale presentato come ottimale dal fascio vibratorio immesso nell’intera costituzione del Cosmo dagli Archetipi Permanenti.

In entrambe le teorie, come sempre avviene, si possono trovare, dal nostro punto di osservazione, sia elementi positivi sia elementi negativi.
Nell’economia di tipo capitalistico è evidente che il rischio principale risiede proprio nel suo assunto di base, ovvero nel concetto di proprietà privata in cui l’Io trova con facilità occasioni e motivazioni per attuare il suo tentativo di espansione nei confronti della realtà: se l’Io non è supportato da un buon riequilibrio delle sue componenti egoistiche con le componenti che fanno capo, invece, alla sua coscienza e alle comprensioni acquisite, esso tenderà ad alimentare la sua volontà di potenza accumulando potenza economica (e, di conseguenza, potere) facendo diventare l’accumulo individuale di ricchezza non un mezzo per trasmettere intorno a sé i frutti derivanti dalle comprensioni acquisite dall’individuo, bensì un fine che arriverà con buona probabilità ad indirizzare le azioni e le reazioni dell’individuo incarnato verso la ricerca insensata (ma, d’altra parte, innegabile fonte di appagamento per l’Io) di una sempre maggiore quantità di possessi materiali.

Le stesse considerazioni possono essere fatte anche nel caso in cui apparentemente l’iniziativa privata non è più individuale ma si esplica attraverso l’associazione di più individui in forme collettive sorrette da una comune ricerca di acquisizione sempre maggiore di beni materiali per chi fa parte di tali collettività.

Le conseguenze della trasformazione dell’acquisizione di ricchezza da mezzo a fine l’avete quotidianamente sotto gli occhi e sono individuabili nel non tenere più in minimo conto gli effetti collaterali che mettersi in tale posizione porta con sé: il depauperare ciò che è posseduto da altri creando forti scompensi economici all’interno degli strati sociali, il disinteresse verso ciò che non è mirato al raggiungimento del fine ricercato, il non curarsi di ciò che, domani, le azioni possono comportare per il resto dell’umanità e persino per la sopravvivenza del pianeta, dal momento che l’Io è, per sua natura, poco lungimirante e proteso a conseguire i benefici nell’immediato.

D’altra parte la prevaricazione di un numero limitato di Io sulla ben più grande massa di Io coinvolta nell’intero processo, induce in tale massa di Io sensazioni di frustrazione e di ribellione spingendo ognuno di essi, dal momento che non ha la possibilità materiale di attuare lo stesso tipo di espansione, a cercare in altre direzioni una compensazione a tale impossibilità, spingendoli ad avviarsi verso il riconoscimento di altre possibilità e di altre finalità che conducono a una concezione più orientata spiritualmente della propria esistenza, preparando così il tessuto della società a quel cambiamento dell’interiorità del singolo che, come vi è stato sempre detto, risulta essere l’unico percorso che può portare veramente a una reale e duratura trasformazione della civiltà.

È evidente che tale dicotomia non può essere indolore ed è prevedibile che ciò porti, come primo effetto, a degli scontri sociali. Ma, contemporaneamente, essa finisce anche con l’indurre, sotto la spinta di un Io alla ricerca di nuovi spazi di autoaffermazione, un affacciarsi sempre più ampio del sentire individuale, la cui continua crescita, grazie alle esperienze affrontate, aiuterà il risveglio e l’affermazione delle coscienze individuali, finendo, nel tempo, con il trasformare positivamente (in senso evolutivo) le condizioni sociali.

Se si identifica il fatto che l’Io, in maniera evidente, risulta essere il primo attore dell’economia capitalistica di libero mercato, esso non risulta essere meno primadonna nell’economia di tipo comunista, anche se, in apparenza, i presupposti di base sembrano tali da poter indurre a pensare che in tale tipo di economia l’Io possa arrivare a trovare meno spazi in cui esercitare il suo tentativo di espansione.

Nell’immaginario collettivo (ma anche in un certo tipo di affermazioni provenienti dalla cosiddetta “sinistra” di stampo social/comunista) il marxismo e le sue derivazioni successive vengono spesso vissute come antitesi al concetto di religione, la quale viene sovente indicata, stimatizzandola come “l’oppio dei popoli”, come uno dei mali principali che affliggono le società capitalistiche.

In realtà si tratta non di una contrapposizione di tipo ideologico bensì di un ennesimo risvolto della lotta di potere, sia politico che economico.
D’altra parte appare evidente che, in realtà, la filosofia di base del marxismo non è poi così lontana, nei suoi fini, da quelli che sono i dettami di base etico/morali che tutte le principali religioni hanno sempre affermato, quali il condividere la ricchezza con il maggior numero possibile di individui, nell’ottica di un maggiore e più equilibrato benessere comune e di una più ampia e condivisa giustizia sociale.

È su questo punto che, alla fine, comunismo e capitalismo finiscono col convergere pur mantenendo apparentemente inalterata la loro dicotomia: sia nel capitalismo che nel comunismo il discorso etico finisce col diventare quasi sempre un’ipocrisia per giustificare azioni e comportamenti deprecabili (secondo la famosa affermazione che “il fine giustifica i mezzi” trincerandosi dietro teorici intenti di giustizia e di difesa della libertà e del benessere degli individui che compongono la società.

Questa convergenza è resa tale anche sulla base del fatto che, alla resa dei conti, il comunismo si avvicina ad essere molto simile al capitalismo, dal momento che le società di stampo comunista finiscono con diventare il campo di azione dell’Io dei personaggi che, di volta in volta, si trovano ad avere acquisito il potere, sia dal punto di vista economico che da quello politico, due aspetti che molto spesso, per non dire sempre, finiscono col coincidere, dando vita a sua volta ad aggregazioni economiche assimilabili al concetto di multinazionali, e diventando il proficuo terreno per l’attività espansionistica di gruppi di Io o di singoli Io particolarmente dominanti come accade nel caso dell’instaurarsi di dittature, vere e proprie situazioni di esaltazione dell’Io. Condizione, questa, che non è certamente assente nelle società di tipo capitalistico, anche se spesso, in questo caso, nascoste sotto proclami ideologici di una presunta filosofia democratica poco credibile all’osservatore corretto e obiettivo.

Il concetto di democrazia (letteralmente: potere al popolo) si rivela essere, ad un’analisi attenta, un concetto utopistico e poco realistico in relazione allo stato evolutivo attuale dell’essere umano anche se, dal punto di vista etico/morale (e persino religioso) appare certamente come il fine ottimale dello sviluppo dell’umanità.

È facile affermare che il popolo, nelle sue varie componenti, non ha, con tutta  probabilità, la possibilità di adoperare il potere nella maniera migliore, ovvero usandolo per favorire l’uguaglianza dei diritti e dei doveri, per attuare una corretta distribuzione economica delle risorse, per eliminare le ingiustizie sociali e via dicendo. E questo sia per la disparità presente nella massa a livello culturale sia, soprattutto, per la varietà di livello evolutivo tra gli individui incarnati sul pianeta.

Bisogna tener presente, infatti, che il popolo è un’entità generica solo apparentemente univoca mentre, nella realtà dei fatti, essa è costituita da un insieme di Io, in parte con gli stessi bisogni e le stesse spinte interiori ma, tuttavia, con individuali percorsi per appagarli, percorsi governati dall’evoluzione del singolo e dalla maggiore o minore preponderanza che ha l’Io individuale nel reagire alle esperienze e nel riuscire o meno a inglobare nelle sue azioni il sentire che l’individuo possiede e che collima solo in parte con quello degli altri appartenenti alla popolazione.

Fa parte delle caratteristiche tipiche dell’Io quella di preoccuparsi in prima istanza di ciò che lo riguarda più da vicino, spostando solo in un secondo momento – e sotto la spinta continua del suo sentire – la sua attenzione sulla possibilità di appagamenti a più lungo termine. Questo lo porta ad occuparsi in prima istanza del teorico benessere di se stesso, e solo successivamente ad adoperarsi per il benessere di chi gli è più vicino fino ad estendere la sua attenzione verso il benessere di chi, magari, non ha con lui rapporti diretti.

In tale situazione la democrazia, così come viene comunemente intesa, non ha molta possibilità di poter essere veramente realizzabile, specialmente in un mondo in cui il concetto di globalizzazione ha espanso i confini e aumentato a dismisura il numero delle persone coinvolte negli accadimenti planetari.

Non è un caso che esempi di democrazia reale ed effettiva siano difficilmente rintracciabili se non, comunque, in piccole comunità in cui, essendo limitato il numero degli Io coinvolti, risulta più facile arrivare ad indirizzare la collettività verso il bene comune più che verso quello individuale.

Non intendo, con questa constatazione, riprendere il concetto di Rousseau del “buon selvaggio”, riportando all’attenzione l’ipotesi settecentesca che soltanto mettendo in atto un ritorno alla vita pre-civile si possa arrivare a una condizione di vita migliore: l’esempio che ho fatto aveva la sua ragione d’essere nel cercare di farvi comprendere che più sono gli Io in gioco da gestire all’interno di una qualsiasi società, più risulta difficoltoso realizzare nel concreto un vero bene comune.

Un possibile ritorno al passato dell’uomo attuale è indubbiamente poco credibile e poco realistico: le condizioni di vita attuale sono ormai troppo diverse anche solo rispetto al secolo scorso, e troppo invasivi e globalizzati gli strumenti tecnologici messi a disposizione dell’attuale umanità per poter fare anche solo un parallelismo tra la società attuale e le società del passato.

Ovviamente, la globalizzazione insieme ai suoi demeriti ha anche dei meriti, ad esempio la circolazione delle notizie sull’intero pianeta e la comunicazione pressoché istantanea di ciò che accade in ambito planetario. La tecnologia che ha reso possibile l’allargamento e l’immediatezza dei processi comunicativi, se usata in maniera corretta e non subordinata alla ricerca del mero vantaggio economico, potrebbe avere un ruolo importante nella creazione di un benessere sociale globale.

Questo non accade, però, che in maniera limitata, perché anche l’avanzamento tecnologico sottostà alla finalità di acquisire potere da parte di multinazionali, lobbies e classi politiche, arrivando a creare guerre in cui gli stessi venditori di armi vendono strumenti di morte a entrambi gli antagonisti, a far diventare il cosiddetto “terzo mondo” territorio di sperimentazione farmaceutica, ad impoverire le risorse del pianeta con lo sfruttamento insensato di fonti energetiche ormai vicine all’esaurimento, a usare i mezzi di comunicazione per nascondere le notizie che potrebbero mettere in agitazione le masse e per presentare modelli di vita privi di un reale spessore e finalizzati frequentemente ad indirizzare le masse verso l’acquisto di determinati prodotti.

Il “We can” (“noi possiamo” per chi non conoscesse la lingua inglese) di Barak Obama ha ripresentato in questi anni il “sogno americano” secondo il quale chiunque può arrivare ad ottenere qualunque traguardo, ed è entrato nell’immaginario collettivo dell’Io giustificando, in fondo, il fatto che per tagliare il traguardo cercato è inevitabile abbattere ogni ostacolo che si frappone alla realizzazione del fine ambito. Quello che è andato perso di vista è il fatto che gli ostacoli sono essenzialmente ostacoli interiori, i soli su cui l’individuo può veramente esercitare il più giusto potere, e che abbattere gli ostacoli esterni corre il rischio, come così spesso accade, di diventare egoismo sfrenato, indifferenza ai diritti degli altri, prevaricazione verso i più deboli, sfruttamento dei più fragili.

Un altro concetto, tipico del capitalismo (ma non solo), è diventato un fondamento di base dell’economia cosiddetta “reale”: il concetto di “crescita”, secondo il quale lo sviluppo socio-economico si realizza solo se vi è una crescita interna alle singole economie mondiali. Ma la domanda, più che lecita, che sorge spontanea è se può essere possibile che la crescita economica possa crescere all’infinito. Credo che basti un minimo di buon senso per rendersi conto che non può essere così: perché vi sia crescita economica è necessario che vi sia crescita produttiva, perché vi sia crescita produttiva bisogna che vi sia una continua crescita della domanda, perché vi sia crescita della domanda bisogna che vi sia una continua necessità da parte della popolazione di acquisire sempre un maggior numero di prodotti.

Mi sembra evidente che questa successione di fattori porti in un vicolo cieco pieno di trappole: per mantenerla viva diventa necessario rendere i prodotti velocemente obsoleti o deperibili, proporre falsi modelli di benessere in cui essi vengono presentati come necessari e indispensabili al raggiungimento di un ipotetico e poco realistico modello di stato sociale dell’individuo in cui il possedere è il simbolo palese di tale status. Senza dimenticare che in una qualsiasi società basata sull’economia i cittadini devono essere in grado di poter comprare sempre più, arrivando a possedere più auto, più televisioni, più cellulari, più, più, più… in una corsa al possedere che finisce inevitabilmente con lo schiantarsi contro le reali possibilità economiche dei compratori, col risultato di creare frustrazioni e problemi di tipo sociale allorché vi è un divario tra quanto viene prodotto e quanto la popolazione è in grado di poter arrivare a comperare. 

E l’aumento attuale del limite di povertà per gran parte della popolazione mondiale indica che si sta avvicinando il momento in cui il ciclo sarà saturo provocando ampie ripercussioni economiche e sociali. La mia analisi non vuole essere un annuncio di catastrofe planetaria, bensì un monito alle coscienze che è giunto il tempo di cambiare le cose perché, per riprendere il discorso di Obama “niente può resistere nella via del potere di milioni di voci che chiedono di cambiare”. Max

Il nostro non va visto come un discorso politico ma soltanto come un timido tentativo di parlare al sentire di tutte le persone che veramente, sentitamente, desidererebbero riuscire a creare un mondo migliore, nel quale non vi sono primi o ultimi, ricchi o poveri, cristiani o musulmani, eterosessuali o omosessuali, colti o ignoranti, vittime o carnefici, potenti o impotenti, lupi o agnelli, dove, cioè, l’ambivalenza di ogni cosa diventa uno stimolo per migliorare e non una mera prevaricazione artificiosa dove la contrapposizione viene adoperata per ottenere un qualche vantaggio o predominio.

Ma, perché questo accada, è necessario che ogni persona guardi se stessa e ciò che sta facendo della sua vita con occhi attenti e obiettivi, cercando di comprendere ciò che veramente vuole, cercando di percepire ciò che nel suo sentire ha compreso senza far sopraffare i suoi raggiungimenti interiori dalle illusorie lusinghe che gli vengono proposte da ciò che è a lui esterno.

Pur essendo consapevoli e certi che il percorso che fin qui l’umanità ha compiuto non è privo di utilità né, senza dubbio, è fine a se stesso ma è stato necessario per permetterne e agevolarne l’evoluzione, riteniamo che sia vicino, ormai, il momento di cambiare prospettiva e passare da illusori concetti di finta democrazia a una coscienzocrazia, più realistica, perché interiormente più sentita, in quanto basata sulla più vera essenza di ogni individuo e sul suo essere non un’entità singola e separata dalle altre entità compagne di esperienza, ma una parte inscindibile del Tutto, cercando di far diventare importanti e predominanti – ognuno nel suo piccolo e personale ambiente e con le possibilità che le sue componenti caratteriali e spirituali gli mettono a disposizione – non le voci che cercano di sovrastarlo dall’esterno bensì i sussurri continui ed instancabili che provengono dal suo interno. Moti

Ciclo sul senso di colpa

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