«Conosci te stesso».
Questa è forse una delle frasi più ripetute nelle varie forme di insegnamento e anche voi che partecipate da anni alle riunioni del Cerchio vi siete più volte scontrati con essa, arrivando ad avvertire la forza e la giustezza di tale imperativo ma trovandovi anche, di continuo, di fronte alla cruda realtà costituita dalla difficoltà di mettere in pratica quelle poche parole mentre il «voi stessi» che cercate di conoscere vi sfugge di continuo come un’inafferrabile fantasma.
Vedete, fratelli cari, conoscere se stessi è un compito che richiede pazienza, costanza, volontà e, soprattutto, coraggio perché molto spesso quello che viene alla luce non è edificante agli occhi di chi osserva.
Il fatto è che il punto di partenza da cui, inevitabilmente, dovete muovervi è costituito dall’osservazione del vostro Io, il quale, per forza di cose, contiene tutti i vostri lati peggiori, quelli che derivano dalla vostre incomprensioni (ma anche qualche lato pregevole, se volete consolarvi, perché andando più a fondo riuscireste a trovare anche gli echi e i riflessi delle vostre comprensioni che, a loro volta, si proiettano sull’Io).
Se poi considerate che l’osservazione di voi stessi è fatta con gli occhi del vostro Io, vi renderete conto che il compito che vi aspetta è di impervia soluzione, perché l’Io tende a non essere obiettivo se non, addirittura, a falsificare e modificare la realtà oggettiva secondo le proprie aspettative.
Mi sembra già sentire alcuni di voi pensare, demoralizzati, che allora cercare di conoscere se stessi, oltre ad essere faticoso e tormentoso, è qualcosa di impossibile e, in definitiva di inutile.
Fatevi coraggio, figli e fratelli, perché non è così: non dimenticate che l’interpretazione data dal vostro Io alle proprie azioni è certamente poco attendibile, tuttavia vi è un osservatore ben più attento che «sente» quali sono gli elementi importanti osservati, li ordina, li raccoglie, li confronta, li relaziona arrivando, comunque, a trarre da essi delle porzioni di comprensione; questo osservatore è, ovviamente, il vostro corpo akasico, il vostro corpo della coscienza, al quale non importa che arrivino dati confusi, apparentemente slegati, mal interpretati e via dicendo perché la sua necessità è che i dati arrivino ed è poi compito suo costruire con essi ciò che è utile per la crescita dell’individuo.
Cerchiamo ora di comprendere, nel modo più semplice e sintetico possibile, cosa significhi interpretare le emozioni e per quale motivo può essere utile farlo.
Come abbiamo visto in precedenza le emozioni nascono all’interno del corpo astrale dell’individuo sotto una triplice spinta:
– da un lato vi sono gli avvenimenti che l’individuo vive quotidianamente, grandi o piccoli che siano,
– dall’altro vi sono i desideri dell’Io che si sente più o meno insoddisfatto da quanto sta vivendo e,
– infine, vi è la vibrazione del desiderio di acquisire comprensione da parte del corpo della coscienza.
Questa triplice spinta focalizza le emozioni individuali e fornisce ad esse, di volta in volta, connotazioni diverse, tant’è vero che accade di vivere in maniera emotivamente anche molto diversa un qualsiasi episodio ripetitivo.
Ora, osservare le proprie emozioni aiuta inevitabilmente a comprendere qualche cosa di più su se stessi perché all’occhio dell’osservatore (anche se, magari inespresse) sorgono delle domande dall’osservazione stessa e queste domande, ancorché, magari, represse dall’Io, attirano con le loro vibrazioni l’attenzione del corpo akasico su quanto sta accadendo, cosicché questi può raccogliere elementi per aggiungere nuovi fattori di comprensione.
Questo, a mio parere, è un punto importante: il comprendere che non è necessario sviscerare le proprie emozioni (anche se riuscire a farlo in maniera obiettiva è, certamente, la via migliore per aiutare se stessi) ma basta porre loro un po’ di attenzione.
Così come è importante comprendere che non è il corpo mentale (e quindi il pensiero e il ragionamento che esso mette in atto) colui che ha la possibilità di comprendere, bensì il corpo akasico.
Il corpo mentale, infatti, soggiace anch’esso ai bisogni dell’Io e, perciò, ha un’attendibilità decisamente poco rassicurante, anche se talvolta, sotto un desiderio di comprensione molto sentito, certi elementi vengono compresi anche con la propria mente e non solo con la propria coscienza.
Giustamente certe dottrine orientali mettono l’accento sul concetto di attenzione, giustamente perché è il passaggio essenziale per poter dipanare il proprio groviglio interiore. Ma stiamo attenti:
porre attenzione alle proprie emozioni non significa operare perché esse siano moderate, o trattenute, o rese meno evidenti, o modificate perché queste sono tutte azioni che è l’Io a mettere in moto per cercare di mascherare, non soltanto agli occhi degli altri ma anche ai propri, ciò che gli sta succedendo; significa invece, lo ripeto, osservare quanto ci sta accadendo e, più ancora, quali sono le nostre reazioni agli avvenimenti, senza necessariamente elaborarli mentalmente ma aiutando il corpo akasico a raccogliere dalla situazione vissuta il maggior numero di elementi possibili per poter mettere in atto la sua capacità di elaborazione al fine di trovare nuovi punti che si vadano ad inserire nel mosaico che, nel corso di un grande numero di vite, va pazientemente mettendo assieme.
Questa può essere la risposta a quanti tra di voi hanno sempre trovato grandi difficoltà e sofferenze nel momento in cui hanno cercato di applicare il «conosci te stesso» e si sono, magari, macerati nel tentativo di arrivare a comprendere quale era la loro realtà più intima: se si possiede ancora un Io molto forte, usare gli strumenti dell’Io (in particolare la mente) per andare in profondità e cercare di svelarne le manchevolezze provoca una immediata reazione da parte dell’Io stesso che cerca di auto-conservare se stesso, alterando gli equilibri interiori dell’individuo e, quindi, aumentando le sue possibilità di sofferenza.
Se cercare di comprendere voi stessi vi risulta faticoso e vi fa soffrire, non insistete più che tanto, poiché vuol dire che non siete ancora pronti per poterlo fare direttamente e, allora, limitatevi ad osservare le vostre reazioni emotive, a prenderne atto e a lasciare che le vibrazioni sotterranee della vostra parte migliore lavorino nel vostro corpo akasico e, perciò, al di fuori del vostro Io.
Sarà, forse, un cammino apparentemente più lento ma sarà, comunque, un cammino ed è importante continuare a camminare.
Un antico testo druidico diceva pressappoco così:
«Se il coniglio si fermasse a chiedersi perché l’aquila che sta volteggiando sopra di lui lo spaventa la sua vita sarebbe lunga come un battito d’ali.
Se l’uomo si fermasse a chiedersi perché sta piangendo o sta ridendo fermerebbe le sue lacrime o interromperebbe la propria risata e avrebbe perso l’occasione per ridere o piangere fino in fondo.
La struttura dell’esistenza dà al coniglio la paura per arrivare a non essere più un coniglio e all’uomo il pianto o il riso per arrivare alla fine del suo essere uomo.
Per questo motivo, coniglio, devi vivere la tua paura.
Per questo motivo, uomo, devi ridere o piangere.» Rodolfo
Letture per l’interiore: ogni giorno, una lettura spirituale breve del Cerchio Ifior e del Cerchio Firenze 77, su Whatsapp. Per iscriversi
Politica della privacy di questo sito da consultare prima di commentare, o di iscriversi ai feed
Significativo il testo druidico e tutto il ragionamento espresso da Rodolfo che invita l’uomo a vivere totalmente.
Interessante anche l’aspetto di autoconservazione di un Io ancora forte..
La mente come mezzo per raggiungere le comprensioni, non come artefice: la capacita di analizzare quello che accade è il substrato per alimentare il piano di coscienza che ha poi una sua ” autonomia” se così vogliamo definirla. Questo concetto ci spinge ad abbandonare quelle elucubrazioni mentali che non servono, anzi non fanno altro che alimentare l’io e a rendere il vissuto “pesante”.
“se si possiede ancora un Io molto forte, usare gli strumenti dell’Io (in particolare la mente) per andare in profondità e cercare di svelarne le manchevolezze provoca una immediata reazione da parte dell’Io stesso che cerca di auto-conservare se stesso, alterando gli equilibri interiori dell’individuo e, quindi, aumentando le sue possibilità di sofferenza.” Sento corrispondenza con questa descrizione dell’io, la sua pesantezza mi è ben nota, meno chiari i suoi meccanismi/automatismi per cercare di interromperli, ed qui probabilmente che recupero la mente per poi passare oltre.
Confortante sapere che non è strettamente necessario essere in grado di interpretare le proprie reazioni ed emozioni, ma è importante comunque osservarle perché la coscienza possa trarne frutto.
Mi ritengo tra le persone che hanno ancora un Io forte, ma nel pieno del “lavoro interiore” difficilmente applico il cognitivo. Mi lascio piuttosto attraversare, permeare da ciò che c è e non sempre poi avviene una rielaborazione cognitiva. Nel travaglio di una comprensione poi, la mente è proprio fuori uso…
Grazie Rodolfo per la argomentazione molto chiara sul ruolo dell’io e decisamente utile la favola druidica che invita ciascuno a vivere fino in fondo le proprie emozioni.